La Corte Costituzionale è stata chiamata, nei primi mesi del 2024, a pronunciarsi sull’applicazione del Jobs Act. Nello specifico, sono state tre le sentenze in materia intervenute con riferimento alla legittimità del diverso regime di tutela nei licenziamenti collettivi illegittimi per riduzione di personale per gli assunti a partire dal 7 marzo 2015, rispetto a quella dei lavoratori in forza da una data antecedente, alla tutela reintegratoria nei casi di nullità del licenziamento, nonché sull’applicabilità del contratto a tutele crescenti alle piccole imprese. Quali effetti hanno queste ultime decisioni sull’applicazione del Jobs Act?

Nei primi tre mesi del 2024 la Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi tre volte su alcune disposizioni contenute nel D.L.vo n. 23/2015 (Jobs Act): con la prima, pubblicata nello scorso mese di gennaio (sentenza n. 7), ha ritenuto legittimo il diverso regime di tutela nei licenziamenti collettivi illegittimi per riduzione di personale per gli assunti a partire dal 7 marzo 2015 rispetto a quella dei lavoratori in forza da una data antecedente. Su questo argomento rimando alla mia precedente riflessione pubblicata su IPSOA Quotidiano Ipsoa il 28 gennaio u.s..
In quella che segue, invece, vorrei soffermarmi su altre due decisioni che hanno riguardato i licenziamenti individuali: mi riferisco alla recente sentenza n. 44 del 19 marzo e a quella, di poco anteriore, la sentenza n. 22, depositata il 22 febbraio.

La sentenza n. 22 del 22 febbraio 2024

Comincio l’esame partendo (anche perché, cronologicamente, è precedente) dalla decisione n. 22.
La Consulta, dopo aver, con alcune sentenze fondamentali, stabilito la legittimità costituzionale della normativa sui licenziamenti individuali e collettivi (sentenze n. 196/2018 e n. 7/2024), continua nell’opera di rivisitazione dei contenuti delle singole norme: la prima che esamino riguarda la nullità dei licenziamenti individuali (art. 2 del D.Lgs. n. 23/2015) ove la lettura della Corte è andata, giustamente, oltre i formalismi letterali (sentenza n. 22, depositata il 22 febbraio 2024).
Ma, a quale conclusione è giunta la Corte Costituzionale e, soprattutto, quale è stato l’iter concettuale percorso?
Ha cancellato l’avverbio “espressamente” dal testo dell’art. 2 che limitava la nullità dei licenziamenti con la conseguente reintegra nel posto di lavoro ai soli recessi ove il requisito era indicato “espressamente” dalla norma come nel caso, ad esempio, del licenziamento della lavoratrice durante il “periodo protetto” della gravidanza e fino ad un anno dalla nascita del bambino.
Tale interpretazione aveva, da subito, ingenerato perplessità, in quanto escludeva dalla reintegra altre situazioni penalizzanti per il lavoratore che non erano state previste dalla legge.
Nel giudizio di merito portato all’esame del Consulta, il giudice remittente aveva sollevato la questione in quanto, a fronte di un licenziamento nullo, non era possibile reintegrare il lavoratore perché la disposizione stabiliva che tale tutela era riservata soltanto ai dipendenti licenziati per una motivazione espressamente prevista dalla legge.
La Corte Costituzionale ha effettuato una profonda disamina dei principi inseriti nella legge delega n. 183/2014, con particolare riguardo all’art. 1, comma 7, lettera c), osservando che il Governo dell’epoca, emanando il D.Lgs. n. 23/2015, era incorso, in un eccesso di delega, perché la limitazione, espressamente prevista, ai soli casi di nullità di natura legale, non risultava tra i principi della legge n. 183: di conseguenza, la norma andava oltre i rigidi paletti fissati dal Legislatore.
Il regime applicabile deve essere lo stesso sia laddove ricorrano ipotesi di nullità previste dalla legge che, laddove tale nullità non sia prevista espressamente. La Consulta motiva tale impostazione affermando che “la limitazione alla nullità testuale appare eccentrica rispetto all’impianto della delega che mira ad introdurre per le nuove assunzioni una disciplina generale dei licenziamenti di lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, a copertura integrale per tutte le ipotesi di invalidità “.
La decisione della Corte Costituzionale ha effetto abrogativo immediato ed opera su tutte le fattispecie per le quali non si è giunti ad una decisione definitiva passata in giudicato.
I giudici della Consulta elencano alcuni casi nei quali, pur in assenza di una dizione di nullità espressa, occorre fornire la medesima tutela. Ci si riferisce al:
a) superamento del periodo di comporto (art. 2110 c.c.);
b) licenziamento per motivo illecito ex art. 1345 c.c.;
c) licenziamento ritorsivo del whistleblower (art. 17, comma 4, lettera a, del decreto legislativo n. 24/2003);
d) licenziamento del lavoratore che rivendica i propri diritti di informazioni sul suo rapporto di lavoro (art. 14 del D.Lgs. n. 104/2022).
Per completezza di informazione ricordo che la tutela, in caso di nullità del licenziamento, consiste nella reintegra nel posto di lavoro e nel pagamento di una indennità risarcitoria del danno subito commisurata sull’ultima retribuzione utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto, per il periodo intercorrente tra il licenziamento ed il giorno della effettiva reintegrazione, con l’eventuale deduzione delle somme percepite (“aliunde perceptum“) durante il periodo di estromissione, per altra attività lavorativa.
Tale indennità non può, in ogni caso, essere inferiore alle cinque mensilità calcolate nello stesso modo sopra descritto. Per tutto il periodo di assenza dal servizio causato dal recesso nullo, il datore di lavoro è tenuto a versare i contributi previdenziali ed assistenziali.
Passo, ora, ad esaminare la decisione più recente.

La sentenza n. 44 del 19 marzo, 2024

Con la sentenza del 19 marzo, la n. 44, invece, la Corte Costituzionale ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Lecce (ordinanza n. 71 del 20 aprile 2023) relativa all’art. 1, comma 3, del D.L.vo n. 23/2015 attraverso il quale il Legislatore aveva stabilito che ai dipendenti di una piccola impresa, già in forza prima del 7 marzo 2015, dovessero essere applicate, in caso di superamento della soglia dei 15 dipendenti dopo tale data le “tutele crescenti” e non quelle reintegratorie previste dall’art. 18 della legge n. 300/1970, come richiesto in giudizio da un lavoratore licenziato.
Il giudice remittente, invocando l’intervento della Consulta, aveva ritenuto che il Legislatore fosse andato oltre i limiti della delega (art. 1, comma 7, lettera c, della legge n. 183/2014), in quanto asseriva che le tutele crescenti nel contratto a tempo indeterminato fossero limitate soltanto alle nuove assunzioni.
La Consulta ha ritenuto di non seguire tale “input”, sottolineando che lo scopo complessivo perseguito dalla norma del 2014 era quello di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro. Con tale obiettivo di riferimento il Governo “nell’esercizio del suo potere di completamento della disciplina, poteva regolare anche la posizione dei dipendenti di piccole aziende, per le quali non c’era un regime tutela reintegratoria ex art. 18 da conservare”
Del resto, si sottolinea nelle motivazioni della decisione, la “forza attrattiva” della norma impugnata non ha leso alcun diritto precostituito dei vecchi dipendenti: anzi, la disposizione ha creato due vantaggi per i lavoratori e per il datore di lavoro, che possono così riassumersi:
a) non si è rilevata alcuna “regressione in peius “ in quanto, come detto, non c’erano, in caso di licenziamento, le garanzie dell’art. 18, ma la tutela meno favorevole della legge n. 604/1966. La tutela riconosciuta dal decreto legislativo n. 23/2015 comporta la piena applicazione dell’art. 3, comma 1, rivisitato nella interpretazione complessiva dalla sentenza n. 196/2018;
b) la possibilità di applicare la stessa normativa sui licenziamenti a tutto il personale in forza rappresenta, secondo la Corte, “uno stimolo (o il venir meno di un freno) a crescere nella dimensione aziendale”.
Da ultimo, una considerazione importante che gli operatori debbono tenere presente e che viene richiamata, esplicitamente, dalla Corte Costituzionale: al di là di possibili, futuri, interventi legislativi la normativa del D.Lgs. n. 23/2015 è, complessivamente, costituzionale come confermano, soprattutto, le sentenze n. 196/2018 e 7/2024.
Da ciò discende, avvertono “ i giudici delle leggi “ che la disciplina del Jobs Act, “proprio perché applicabile a tutti i nuovi assunti, che sono in numeri crescente, tende ad essere quella ordinaria, mentre quella dell’art. 18 ”vede restringersi, naturalmente, nel tempo la sua area di applicabilità così da costituire un regime ad esaurimento”.

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